domenica 17 aprile 2016
Seminario di Costellazioni Familiari
Abitualmente consideriamo l’amore come se fosse un sentimento a se stante.
Distinguiamo l’amore da altri sentimenti come la rabbia, la paura, la tristezza o il dolore e lo contrapponiamo ad altri ancora quali l’odio, il rifiuto e il disprezzo. In base a questa ripartizione, che diamo per scontata, distinguiamo il comportamento nostro e degli altri; attribuiamo una qualità positiva o negativa alle nostre o altrui azioni a seconda di quale sentimento supponiamo esserne l’origine. I gesti, le parole e i comportamenti che ci paiono avere un intento benefico li attribuiamo all’amore, gli altri li percepiamo come se possedessero un movente dettato da altri sentimenti.
In questo modo, ci convinciamo che sia possibile vivere l’amore parallelamente ad altri affetti, che l’amore sia una opzione, una scelta personale. Questa scelta mostra la volontà o, quantomeno, la capacità di ciascuno di nutrire i sentimenti più nobili e altruistici oppure, all’opposto, la non volontà o l’incapacità di farlo. Armati di questo criterio, giudichiamo i sentimenti di cui siamo fatti oggetto: quelli che a nostro giudizio ci fanno del bene li valutiamo dettati dall’amore, quelli che ci sembrano dannosi li attribuiamo ad altri sentimenti negativi. Di conseguenza, diamo alla persona o al familiare che ci ha rivolto delle attenzioni il merito di averci amato e agli altri il difetto di non averlo voluto o saputo fare.
Per questa strada, arriviamo a dare un giudizio complessivo sulla nostra stessa esistenza.
Se ci sembra di essere stati amati, ci sentiamo dotati di una forza costruttiva e andiamo incontro alla vita con fiducia. Se, al contrario, valutiamo di non avere ricevuto amore a sufficienza, bensì di essere stati oggetto di sentimenti opposti all’amore, ci sentiamo in diritto di non essere contenti di noi stessi e degli altri; ci lamentiamo spesso di quello che ci succede personalmente e di come va il mondo.
Il giudizio più severo, spinti anche dal comune indirizzo della psicologia, è spesso quello che rivolgiamo verso i nostri genitori. Attribuiamo ad essi la responsabilità della nostra cattiva sorte: il fatto che non hanno voluto o saputo amarci ci sembra essere all’origine della nostra infelicità, malattia o insuccesso. Non sentendoci amati, ci crediamo autorizzati a non amare la nostra stessa vita. Rivolti ai genitori, pensiamo: perché metterci al mondo, se poi non siete stati capaci di darci le cure e gli affetti di cui avevamo bisogno? E così, giudicando la vita un peso e non un dono, abbiamo una buona giustificazione per non vedere quello che ci è stato dato e quello che la vita ancora potrebbe darci.
La mancanza che proviamo è tanto reale, da farci ritenere che la nostra valutazione sia del tutto oggettiva. Al contrario, ho spesso notato che non c’è proporzione fra quello che si è ricevuto e ciò che ciascuno crede di avere avuto dai genitori. Ci sono persone che hanno avuto “soltanto” il dono della vita e null’altro e non se ne lamentano, e altre che hanno avuto molto e sono sempre scontente – tanto che non si capisce più se la loro infelicità sia l’effetto della mancanza d’amore o invece la conseguenza del risentimento che sancisce quella mancanza.
Se questi sono gli esiti, se il sentirsi o meno amati diventa la scusa per non prendersi la responsabilità della propria felicità, forse sarebbe meglio cambiare prospettiva.
Potremmo dare all’amore un posto diverso.
Potremmo vedere nell’amore non solo la sua faccia “buona”, la benevolenza o l’affetto, ma proprio il terreno stesso su cui si declinano i sentimenti che ci legano con i nostri familiari e con le persone con cui abbiamo relazioni sentimentali.
Così facendo, l’amore ci apparirebbe non come un sentimento fra gli altri, ma come IL sentimento, come il grande contenitore di tutti i sentimenti. Allora vedremmo tutti i sentimenti, sia i nostri, sia quelli altrui, come manifestazioni di questo unico sentimento. Se le circostanze sono favorevoli, l’amore può mostrare il suo volto più benefico; se, invece, qualcosa si frappone e impedisce il suo impetuoso fluire, l’amore si trasforma in una potenza tanto distruttiva, da farcelo sembrare il suo contrario.
Certo, sembra impossibile e perfino ingiusto ascrivere all’amore certi comportamenti di negazione e prevaricazione. Se non bastasse la nostra esperienza personale, continuamente veniamo informati di quanto proprio all’interno delle relazioni parentali e affettive si sviluppino i sentimenti più distruttivi. Eppure, dovendo uscire da certe situazioni o difendersi dai loro effetti, cosa è meglio fare? E’ meglio la riprovazione e la condanna, che legano i protagonisti al male che c’è stato senza speranza? oppure ricordare che è proprio la sua stessa potenza che a volte rende l’amore così difficile da maneggiare?
Nel primo caso, avremmo un buon motivo per giudicare; avremmo chiaro chi sono i colpevoli e chi gli innocenti, quali le vittime e quali i carnefici, ma questo ci sarebbe di poco aiuto, lasciandoci soli a coltivare il nostro giustificato rancore. Nel secondo caso, saremmo spinti a proseguire la nostra ricerca; a continuare a chiederci come mai, visto che tutti abbiamo la necessità di essere amati e di amare, un così condiviso bisogno a volte si trasformi in qualcosa che sembra negarlo.
Per fare questo, il prezzo da pagare non sarà piccolo: dovremo rinunciare alla nostra infantile presunzione di innocenza. Eppure, mantenendo la domanda aperta, vivendo e crescendo, il nostro stesso sentimento d’amore continuerà a svilupparsi e a darci risposte sempre più ampie e comprensive.
Mediatore: dott. Stefano Saviotti
Accompagnatrice: dott.ssa Diana Marchesi
Orario: ore 9.00 iscrizione, ore 9.30 inizio, ore 13.00 pausa pranzo, ore 15.00 ripresa, ore 19 conclusione.
Luogo: centro RuYi via delle Lame 69 Bologna
Costo: € 70.00 (coppie € 120.00, bambini e adolescenti gratis) più tessera associativa RuYi € 15.00
Informazioni ed iscrizioni: info@ruyi.it, www.ruyi.it _051553210/ 3386002461 (Alessandra)
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